Esperienze di Danzaterapia

di Elena Cavaciocchi

Danzaterapia, un intervento in una scuola primaria

danzaterapiaGrazie alla mia qualifica di psicoterapeuta esperta nel lavoro a mediazione corporea, sono stata spesso invitata a condurre Laboratori in Scuole di vario ordine. L’esperienza di cui vi parlo in questo articolo riguarda una seconda elementare in cui la situazione venne descritta così: due ragazzi bullizzano la classe, usano violenza fin al punto che il momento della ricreazione è diventato un incubo, e gli alunni non vanno più in giardino perché sono spaventati. 

Così, inizia il mio lavoro. 

Propongo alcune esperienze di animazione e coinvolgimento del corpo, e noto che la timidezza ed il timore fanno sì che gli alunni entrino poco in contatto, non si rilassino e l’energia non circoli liberamente. Sono guardinghi, stanno in piccoli gruppi, si scambiano sguardi timorosi. In un certo momento di uno dei giochi, noto che l’alunno definito come il principale “bullizzatore” si erge al centro della classe in una postura rigida, autoritaria, con un ghigno dipinto sulla faccia e un’espressione di sfida. Mi lascio guidare dall’istinto ed azzardo un “holding”: lo stringo in un abbraccio da dietro, e gli faccio una domanda : «dimmi T. , quand’è che devi essere così forte?».  Sento che si scioglie, come sopraffatto da una stanchezza improvvisa, come se contattasse tutta insieme la fatica necessaria a mantenere quella postura marziale. E, inaspettatamente, risponde . E dice «quando mi devo occupare di mia cugina». Lo invito a raccontare. Il suo peso è sempre più accasciato su di me, sento la fatica di sostenerlo e l’emozione del momento. 

Mi racconta. 

La cugina ha una grave disabilità. Abitano in due case adiacenti, le madri sono sorelle, il padre della bimba se n’è andato quasi subito dopo la sua nascita, come se non sostenesse il peso della situazione. E lui è stato investito della responsabilità di prendersene cura. «L’anno prossimo verrà a questa scuola, e non c’è neanche la maestra apposta». Questo laboratorio è stato condotto anni fa, in un momento in cui si paventava l’idea che fossero severamente ridotti gli insegnanti di sostegno.

Ecco cosa era accaduto. T. immaginava di dover sorvegliare l’ingresso della cugina disabile nella sua scuola, in condizioni estremamente critiche. Temeva che non sarebbe stata accolta, semmai che i compagni avrebbero potuto deriderla. Quale modo migliore per garantire un trattamento adeguato alla  cuginetta, se non quello di «fare il grosso, esser temuto da tutti» per controllare la situazione? Questa almeno fu la mia lettura.

Intanto, suona la campanella della ricreazione. T. resta appoggiato a me. I ragazzi intorno creano un cerchio, si siedono a terra e mettono al centro le loro merende, in condivisione: così, chi vuole può prendere uno spicchio di mandarino, o una patatina fritta, un cracker….

Quando il contatto fra me e T. si scioglie, ed io lo riporto sulle sue radici, sui suoi piedi, con uno sguardo di comprensione e complicità, mi avvio verso la Maestra per congratularmi per questo Rituale della merenda condivisa, che trovo bellissimo. Ma lei è pallida, e mi dice : «E’ la prima volta che succede». Che succede cosa? Che i ragazzi hanno percepito il calo di tensione;  che si sono seduti a terra – posizione che presuppone una fiducia: se si ha paura non ci si mette in una condizione di così evidente vulnerabilità; e che da lì hanno messo al centro le loro cose, e le hanno lasciate a disposizione, per nutrirsene liberamente.

   In questo breve resoconto, desidero attirare l’attenzione sulla varietà delle motivazioni che possono condurre un bambino ad adottare un ruolo, un comportamento impopolare. E’ un sacrificio estremo che fa del suo Sé, per una causa più alta: proteggere qualcuno, o qualcosa. Il suo inconscio decide per lui – o per lei – con un  costo altissimo: quello di rinunciare alla sua stessa infanzia. 

Danzaterapia e psichiatria. Integrazione corpo mente emozioni.

Racconto alcune esperienze in particolare con una donna, ospite di una Casa d’accoglienza per donne con disturbi psichiatrici.

C. ha circa 50 anni. L’esordio del suo disturbo psichiatrico è avvenuto molto presto rispetto all’età solita delle prime manifestazioni della schizofrenia, che si verificano di solito intorno ai 20 anni. Lei ha dato segnali di forte disagio fin da ragazzina – la direttrice della Casa mi informa che accadde dopo la somministrazione di un vaccino.

Comunque. C. è molto collaborativa dal punto di vista motorio, specie per quanto riguarda il lavoro a terra: ama infatti rotolare e lo fa con una grazia inusuale, con grande competenza. Mentre in piedi dopo poco si affatica, lamenta un dolore a un piede (in effetti ha un alluce valgo molto pronunciato) e perde l’equilibrio. Io apprezzo la scioltezza dei suoi movimenti e glielo comunico, e lei mi  chiede e richiede: «Son portata vero?» ed io confermo, la rassicuro, la gratifico. E così continuano i nostri incontri per un po’, con una piccola parte di resoconto sul suo stato d’animo e un’altra parte di espressione motoria, certo stereotipata – C. è sì sciolta, ma i movimenti che esegue sono sempre gli stessi. Raramente esplora una direzione diversa, e quando lo fa è questione di pochi attimi; poi torna sulle sue traiettorie solite. Ma si muove.

Finché un giorno arriva e dice : «io da oggi non cammino». C’è da considerare che C. soffre di un dolore cronico alle gambe, dovuto all’obesità e alla cellulite nelle cosce. Spesso, le persone con disturbi psichiatrici prendono molto peso, complici i farmaci e la quasi totale assenza di movimento nella loro vita. Ma cosa ha spinto C. a questa decisione, proprio oggi?

Da seduta, come annunciato, chiede a me e all’assistente di aiutarla in una sorta di Rituale: lei farà nascere Rosaspina, la sua bambina (o il suo Sé-bambina?) e noi dovremo assisterla entrambe in questo compito. Così approntiamo col materiale a disposizione (palle da Pilates, teli vari) una sorta di Uovo e di Placenta, da cui aiutiamo Rosaspina (una palletta più piccola) a nascere. Dopo di che, C. chiede il nostro aiuto per tenerla in braccio, cullarla.

Rosaspina è l’altro nome della Bella Addormentata. E C. è “addormentata” alla vita. Oggi poi ha deciso di non camminare (quindi, dal mio punto di vista, di “ripartire da quando non camminava”) e di “rinascere”, operando una sorta di maternage a tre per questa Nuova Lei.

Da quel giorno, C. non ha più voluto rotolare; i suoi movimenti sono avvenuti per lo più da seduta; ha richiesto di ascoltare canzoni precise, ossia quelle risalenti alla sua fanciullezza , al momento in cui ha cominciato a star male. E da lì è partita la sua particolare “ricerca dei motivi”: un elenco di nomi, indirizzi, istituti ed eventi che si sono susseguiti, nonché un elenco di farmaci che ha assunto e ai quali – o ai dosaggi sbagliati, o allo sbagliato momento dell’assunzione – lei attribuisce la causa del suo malessere. E’ come se lei tornasse indietro ogni volta a quel tempo, nella speranza di individuare i motivi dell’inizio della malattia, della comparsa dei sintomi. Perché lei sta male, ne è consapevole, e vorrebbe star bene. E mi racconta a più riprese la vita che potrebbe o avrebbe potuto vivere: avere una casa sua, con un gatto e un cane, alcuni oggetti e l’immancabile macchina del caffè – lei ama il caffè ed ogni volta, al suo arrivo, si reca al distributore e ne prende uno. 

Un giorno che C. sta particolarmente male, urla il suo dolore, urla la sua stanchezza, e dice che vuole morire. Poi, con un altro sguardo, si rivolge a me e chiede: «se io ora mi sdraio come se fossi morta, e poi mi rialzo, questo mi potrebbe far star meglio, vero Elena?». Sì; la accolgo e la rassicuro in questo perfetto atto di simbolizzazione, nonché di “scarica a terra” di tutta la sua angoscia. Così fa. E dolcemente si rialza, mi guarda, mi ringrazia.

Da quel giorno, C. continua ad urlare, periodicamente, che non ne può più di tutto, delle assistenti, delle altre ospiti, delle cure… ma dopo abbassa il tono della voce e si scusa con me, di certo spaventata dalla possibilità di  perdermi come “oggetto buono”; ma di certo anche per riparare, consapevole degli effetti che le sue comunicazioni e modalità possono avere su un’altra persona.

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