Il labirinto (terza parte)

di Nicola Ghezzani

Incontri e altre solitudini

Jean Antoine Giroust – Edipo a Colono (1788)

Solitudine. L’estasi di Arianna

Non sono più donna nelle tue mani

nei tuoi occhi, nella tua mente,

come fui quando tu mi conoscevi.

Non ho più uno sguardo per vedermi.

Ho perso ogni sembiante umano. Tu

m’hai lasciata muta come una statua

scolpita dal mare nella più aspra roccia.

Nera, scavata da un dolore che scorre

coi flutti salmastri. M’hai inaridito

gli occhi, non ho più parole – l’odio,

rapido come fiamma, me l’ha spezzate

in gola. Io non fui mai abbastanza per te,

non fui grembo, né cosce, mani o ventre,

né le spalle che presero gli urti

del tuo inesausto lavoro, né il cuore

che ti porse amore ad ogni istante.

Ma se non m’avessi lasciata inerte

in questa stanza nuda, se cieca

non m’avessi gettata in questo buio,

io non avrei guardato mai oltre

il confine della morte e incontrato

la pietà di Dioniso, il selvaggio iddio,

e mai avrei vissuto in estasi – l’anima

sprofondata più del mare, perduta

più del sogno, più dell’assoluto oblio.

Teseo e Asterione

Teseo:

«Il tuo sangue mi schiarì la mente.

Era il mio stesso sangue – ma avvelenato.

Vi brulicavano le serpi dell’odio

per colui che cieco di vergogna

t’aveva privato d’ogni speranza

e imprigionato in un castello immane –

condannato alla ferocia

d’una devianza senza meta.

Privato della luce dello sguardo,

trattato come un putrido animale

ti consolavi con l’ira e con gli scempi.

Non sapevi dove volgere la furia

e divoravi a brani i corpi inermi

dei miei più amati cari – le mogli

non sposate ed i guerrieri ancora intatti

e i figli che non sarebbero venuti.

Tu non sapevi d’essermi il Contrario.

Una patria hai voluto decimare,

costretta al servizio del nemico,

immersa nel terrore. Hai voluto

condannare ad un eterno sogno

la celeste sovranità di Atene».

Asterione:

«Ora so ch’ero accecato dal lampo

infernale, che mi chiedeva gloria

che da tenebra ascendesse a pura

luce. Ma non avevo occhi, specchi,

la dolcezza del parlare, una moglie

nel cui ventre versare il seme informe.

Né potevo riconoscere le norme

delle città, dei porti, delle strade,

dei traffici geometrici del mare».

Teseo:

«Ora tu sei in me il gemello d’armi

e di prudenza. Io non ti rinnego.

Ora sei il rovescio della mano.

La tua morta potenza ogni giorno

si trascende nel mio intelletto.

Dal sangue sovrumano altra coscienza

prego, che come sole irradi intorno».

Teseo. L’insidia più abissale

In un sonno o una visione m’apparve

il dio Dioniso l’Oscuro, ruggente

come mille e più leoni addensati

in un coacervo immane o come l’immenso

Nulla che a Oriente apre le sue porte.

Mi disse «E’ mia, rendila al suo Padrone

e ti prometto che non impazzirai».

L’abbandonai nell’isola di Dia.

Tagliai via un pezzo del mio cuore.

Era il più sensuale e forte,

era il mio indomito coraggio

e l’abbandonai al dio d’Oriente.

Quel Dioniso splenetico e selvaggio

che attraversa le piane d’Asia

col passo dei giganti per scendere

nel mare e riapparire fra le isole

di Grecia, coperto di tentacoli

e conchiglie, m’ispirò col terrore.

Lasciai parte di me, la più devota

e estranea – la Conoscitrice del Male.

Artista dei disegni e dell’amore,

quell’Arianna amante dell’Altrove,

la sorella gemella del mistero.

L’altra faccia del mostro, del retto

mio pensiero l’insidia più abissale.

Teseo e Edipo. Un incontro

Io sono l’altra faccia della medaglia,

l’esistenza rovesciata di quest’uomo,

il suo atroce specchio ustorio.

Lui è fiamma e insieme cenere.

Io sono il re Teseo, lui è Edipo.

Entrambi abbiamo ucciso un mostro

e meritato un regno. Ma io

regnai a lungo nella città celeste

e divenni luce che colpisce l’ombra,

l’albero da frutto inghirlandato,

il giardino ridente sotto i passi calmi,

città che naviga su bianche spume.

Io sono il popolo che mi saluta

perché danzo su calzari alati

mentre un dolce vento m’accarezza

chioma e barba – bianche come le nubi,

pettinate fra profumi d’essenze.

Lui è il mostro che ha risolto l’enigma

e giustiziato un altro mostro – è Edipo,

che ha irriso l’atroce Sfinge. Ma è anche

un padre che ha assassinato il proprio padre,

un figlio che ha generato dalla madre.

Lui è l’ombra che logora la luce,

il ramo nero che in silenzio freme,

radice senza l’acqua, albero vizzo

e secco abbandonato al suo destino.

Lui fu due città ed ora è soltanto l’orribile

deserto che ha accolto i suoi piedi

informi e l’ossessione del ricordo:

una madre che rese vedova e fu

fecondata col seme del figlio,

un ventre che tre generazioni infette

accolse per gettarle a caso. Io re

di Atene, aduso a mari e terre, avrei

voluto dargli pace come a un fratello.

Ma lui si gettò indosso il mantello

degli dei, che lo rese invisibile. Capii

d’un tratto la mia follia. Pensavo

che fosse un abominio indegno,

che fosse un cieco nulla. Ed era invece

una figura emblematica, immensa –

segno tracciato nella lingua degli dei

ad indicarci un percorso di sapienza.

Divenne Eroe, santificato dal regno.

Solitudine. Il compimento di Edipo

Molti anni fa – sembra un tempo infinito –

quando volli far scempio della luce

e della vita con le spille della madre

sciagurata che m’introdusse al mondo,

sognai, una notte, un sogno spaventoso.

Battevo – forte – coi pugni chiusi

e le palme sporche di sangue

il portone della mia stessa casa.

In alto, oltre quel muro di legno chiaro,

eran nati i miei figli. Ma la porta

era serrata, nessuno poteva aprirla

e nemmeno raccogliere il mio pianto.

Il mondo era deserto, l’umanità scomparsa,

il vuoto assoluto mi circondava.

Come fosse tenebra in piena luce.

L’anima mia vagava insonne,

immersa in quella fredda dannazione.

Moltitudini passarono di sogni.

Moltitudini affollate di giorni.

Poi, obliato il rumore del tempo

che mi lavò com’un sasso la mente,

una notte tornai ancora, in sogno,

a fronteggiare quell’uscio chiuso.

E al tocco leggero della mano – quasi

non l’avessi nemmeno sfiorato – il portone

docile s’aprì, come fosse una tremula

tenda mossa da un vento impalpabile.

Il portone non era più di legno.

Era di metallo e verniciato scuro,

nell’armatura brillavano cristalli.

Là, oltre l’androne e poi l’ingresso,

dormiva la casa in silenziosa attesa.

Là m’attendevano le foto dei morti,

nelle cornici brillanti, e dei molti

figli che ho generato. M’attendeva

il fascino d’un suono immateriale –

di un canto che non aveva voce.

Seppi allora che quella porta –

che s’apriva leggera, che la mia mano

sfiorava appena – lei era l’ultima

porta, prima di sfarmi nella luce.

L’intero universo è un labirinto

L’intero universo è un labirinto

con fauci, artigli e un rostro informe.

Ad ogni via s’annida un errore,

ogni sua voluta

suscita l’orrore

del vuoto e dell’abisso.

Quaggiù ogni donna

t’ama come nessun’altra,

eppure brama la tua morte. Sta

ai confini dell’Inferno

che devi attraversare. Sembra

armata del tuo stesso orgoglio.

Eppure, per quanto innamorata,

lei è l’Altra, l’Archetipo

degl’infiniti abbagli – lampo

destinato a un dio.

Come un falso idolo

sappi dimenticarla

su un isola perduta,

sulla riva di un mare.

Poi, come in uno specchio,

sogna ancora l’accaduto.

Tu t’avventuri e incontri

nel cuore del groviglio

Lui, il mostro –

che ti guarda dal profondo

del tuo stesso volto.

Non sottovalutare la sua esistenza.

Anche se può sembrare un sogno

Lui nasce dalla tua stessa ombra.

Nasce dalla tua viltà più ambigua

e cresce ad ogni tua nuova desistenza.

L’intero universo è un labirinto.

Sappilo. Lo sarà sempre.

Sta ovunque il tuo cuore possa andare.

Non credere che sia soltanto un simbolo.

Non è poesia. Nessuno lo ha dipinto.

Domani

Cominciai a riflettere su me stesso.

Fu come conoscersi in volto nell’acqua

d’un lago immoto o d’uno stagno.

Vedervi tremare il liquido riflesso

dei pensieri a tal punto mi piacque

da esserne irretito – come se un ragno

avesse tessuto una tela di sogni

sul cui disegno plurimo lo sguardo

mio vagava come cervo in un bosco.

Mi distrassi in quell’ignoto regno

tanto a lungo che il disordine

m’assediò la mente, e un fosco

intrico d’immagini e visioni

parve distruggermi l’anima.

Un groviglio d’incubi e di strade.

Ma poi m’apparve la scissione,

ed ebbi d’un tratto fra le mani

due mondi sparti come Cielo e Ade.

Teseo e il Toro nel labirinto

ancora si batteranno, domani.

Oscilleranno Caos e Redenzione.

Ma anche il duello è solo un’illusione.

Il nemico non è la morte – è l’immane

Caos. Sembrava invincibile – e fu vinto.

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