L’intervento di affiancamento a domicilio con il giovane e la sua famiglia

di Alessio Esposito

Il lavoro di assistenza psico-sociale che negli ultimi cinque anni ho svolto con fanciulli e adolescenti mi ha convinto che non si dovrebbe mai scartare l’ipotesi di visitare il loro ambiente di vita e, in alcuni casi, di svolgere parti dell’intervento terapeutico direttamente sul posto, scegliendo di stare al loro fianco e condividere momenti di quotidianità.

Solitamente ricostruiamo un’immagine dell’ambiente domestico e sociale del paziente attraverso i colloqui, poi ci serviamo di questa immagine come di un fondale su cui proiettare le sue esperienze e le sue relazioni. D’altra parte quest’approccio risente di limiti che derivano non solo dalla capacità del soggetto di descrivere la sua realtà quotidiana e nostra di formarcene una rappresentazione aderente, ma soprattutto dal fatto che molti elementi di sfondo della vita quotidiana tendiamo a darli per scontati, al punto di perderli di vista. Sono invisibili ai nostri stessi occhi perché appartengono a quella dimensione nascosta della cultura che gli etnografi cercano di afferrare attraverso l’osservazione partecipante.

Lo spazio domestico può a tutti gli effetti essere considerato come un campo antropologico che deve essere conosciuto, perché dalla sua esplorazione si ricavano dati essenziali che permettono di equilibrare le valutazioni e di meglio calibrare l’intervento.

D’altronde non necessariamente il lavoro con il giovane e la sua famiglia deve svolgersi nello studio dello psicologo e si può prevedere di portare l’intervento direttamente nel contesto di vita dell’assistito. È questo lo scopo dell’affiancamento a domicilio: portare l’aiuto lì dove si manifesta il bisogno.

L’intervento dialettico di affiancamento risponde a bisogni specifici: assistenza nella cura personale e dell’ambiente di vita, facilitazione nelle relazioni e mediazione nel conflitto familiare, ridefinizione delle responsabilità connesse ai ruoli, sostegno a favore dell’integrazione nei vari contesti di vita del giovane, educazione all’uso consapevole degli strumenti digitali e della rete, prevenzione del disagio psico-sociale. Accordiamoci quindi sul significato dell’espressione “affiancamento a domicilio”, di cui sto facendo un uso particolare: questo approccio al lavoro assistenziale e terapeutico, dal mio punto di vista, comprende non solo le attività che si svolgono all’interno dell’abitazione, ma anche quelle che con il giovane (o con i suoi familiari) svolgiamo fuori casa, direttamente nei luoghi e nelle situazioni sociali che per lui hanno significato. Si può parlare in generale di affiancamento a domicilio perché la casa diventa la base dell’intervento. Ci si darà appuntamento a casa, si svolgeranno delle attività all’interno o all’esterno dell’abitazione, si tornerà a casa, alla base, prima di salutarsi. Le attività che si possono svolgere sono molteplici e non necessariamente è l’operatore che decide. I ragazzi spesso hanno difficoltà a descrivere a parole il proprio mondo sociale ed emotivo e spesso preferiscono mostrare quello che non possono raccontare. Questa è la funzione degli “agiti”, attraverso cui molti adolescenti portano in scena l’inesprimibile. Nell’affiancamento individuale l’operatore offre al suo assistito la possibilità di mostrare, poiché si rende disponibile a incontrare e vedere la sua realtà quotidiana: le interazioni all’interno della casa, l’organizzazione della camera, l’uso della console, il nascondiglio delle lamette, il vicolo in cui si riunisce il gruppo dei pari, le scritte sui muri, il negozio dove commette dei furti. Se il rapporto è solido e si ha sufficiente fiducia nelle proprie capacità di gestire il processo di aiuto, si può lasciare che sia il giovane a condurre parte dell’incontro, come nell’ambito di un colloquio si darebbe all’interlocutore la libertà di parlare di qualunque cosa egli desideri e di introdurci nel suo mondo attraverso la narrazione. Le parole lasciano quindi spazio all’esperienza: ci si dedica al fare (studiare, scrivere, ordinare, ascoltare, giocare, camminare, navigare etc.) si visitano luoghi, si creano giochi, si interagisce con altre persone, ci si appropria del tempo anche scegliendo di perderlo.

Al giovane è offerta la possibilità di fare con noi ciò che altrimenti farebbe da solo e nel corso dell’intervento si costruisce una cornice riflessiva che ha una chiara funzione evolutiva. L’esperienza, infatti, non scappa via, come nel colloquio psicologico non scappano le parole. Diventa parte di una memoria che il giovane condivide con l’operatore, il quale coglie relazioni tra i fatti e fa si che dal fluire dell’esperienza emerga una struttura che sarebbe, altrimenti, invisibile. Questa struttura che connette parla del giovane, della famiglia, della società così come egli la vede, dei suoi desideri inesprimibili, delle sue frustrazioni e delle sue angosce. Una volta resa visibile, se ne possono discutere i “nodi” e si può cominciare un lavoro di districatura che può anche essere svolto in forma integrata con altri professionisti: assistente sociale, psichiatra, psicoterapeuta, insegnante, educatore.

Provo ad esemplificare: immaginiamo di ricevere all’interno del setting classico dello studio privato un giovane che sta sviluppando una dipendenza dai videogiochi. I suoi genitori hanno richiesto il nostro intervento quando si sono accorti che il tempo trascorso dal figlio alla console aveva ormai superato le tre ore al giorno. Ci riferiscono anche che quando il ragazzo gioca sembra trasferirsi su un altro pianeta. Le parole di una mamma: «Alterna periodi in cui è più socievole e coinvolto nella vita “reale” ad altri in cui passa la maggior parte del tempo chiuso nella sua stanza a giocare. Quando gioca è lontano, lo chiamo ma non mi sente. L’unico modo per attirare la sua attenzione è di inserirmi fisicamente tra lui e il monitor. Inoltre questa soluzione è sempre più difficile da mettere in atto, perché provoca in lui esplosioni di collera che mi spaventano». Quindi incontriamo il ragazzo. Attraverso i colloqui lasciamo che ci introduca gradualmente nel suo mondo, cosa che avverrà in modo spontaneo se gli andiamo sufficientemente a genio. Ci facciamo raccontare come ama trascorrere il suo tempo libero e gli chiediamo, con sincera curiosità, di spiegarci la trama di quei videogiochi che lo appassionano tanto. Integriamo le informazioni dettagliate che riceviamo direttamente dal ragazzo con le altre, ricavate dalle conversazioni con i genitori. Così facendo costruiamo un quadro euristico che possiamo sempre arricchire (attraverso colloqui con il ragazzo, con i familiari e congiunti) ma che risente del limite intrinseco dato dal fatto che tutti i dati che lo costituiscono provengono dallo stesso vertice di osservazione.

Al contrario se ci rendiamo disponibili a trascorre del tempo con il ragazzo nel suo contesto di vita, potremo prendere posto al suo fianco e da quella posizione osservare direttamente le modalità di uso della console, l’autoinduzione dello stato ipnotico raggiunto via videogioco e l’innesco progressivo del processo dissociativo, che trasforma il soggetto in un gamer patologico telecomandato da un intelligenza remota (eppure assolutamente umana) che infonde picchi di eccitazione tramite l’orchestrazione di esperienze virtuali. Mentre tutto questo si verifica siamo con lui nella sua stanza e riceviamo dati da diverse fonti: dal ragazzo, ovviamente, dal videogioco, dalla dimensione prossemica e cinesica, dalle altre aree della casa, da cui possono provenire rumori che attestano la presenza dei familiari o, al contrario, silenzi che amplificano il vissuto di isolamento. In effetti ci rendiamo conto che l’ambiente parla di lui attraverso un codice culturale che difficilmente potrebbe essere raccontato a parole durante una seduta che si svolge in studio. Il quadro euristico che ne ricaviamo è strettamente aderente all’esperienza vissuta dal soggetto, animato, pluridimensionale.

L’affiancamento a domicilio permette inoltre di agire rapidamente e con maggiore efficacia. Infatti questo vertice di osservazione si può facilmente trasformare in un vertice di intervento. Torniamo al nostro esempio: stando al suo fianco possiamo aiutare il ragazzo a decifrare il gioco (commentandone la trama, esaminando i suoi personaggi, i loro ruoli e le loro funzioni), a riconoscere il potere suggestivo che esercita su di lui, a capire come egli stesso sia parte attiva nell’organizzazione dell’esperienza virtuale e come questa si collochi in quel particolare momento della sua vita. Una volta spezzato l’incantesimo, fuori dal circolo vizioso della dipendenza, si può continuare il lavoro terapeutico con il ragazzo aiutandolo a scoprirsi parte attiva anche nell’ordine dei rapporti sociali (in famiglia, a scuola, nel gruppo dei pari) ed eventualmente anche con i familiari, perché la crisi di un membro può offrirsi come occasione di crescita per l’intero sistema.

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