Il labirinto
di Nicola Ghezzani
Quante volte abbiamo sentito con sconcertante chiarezza che il nostro cuore è diviso, perché scisso fra sentimenti opposti, lacerato dalla confusione e il conflitto? Da Edipo che vuol sapere e inorridisce della verità da lui stesso dischiusa, fino a Amleto, che vorrebbe vendicare il padre e invece si perde in un labirinto di contraddizioni, fino a noi stessi, infine, che non sappiamo in quali archetipi rappresentarci, due anime si contendono il nostro petto. Ronald David Laing, maestro di psichiatria da me in giovinezza amato, intitolò L’io diviso il suo libro più bello, scritto a ventotto anni.
Da sempre gli artisti sono stati ossessionati dal tema del sosia, del doppio, dell’alter ego incompatibile col nostro Io ordinario. Fu Otto Rank (dopo aver letto Dostoevskij, Edgar Allan Poe e Guy de Maupassant) il primo a sollevare la questione in seno alla comunità psicoanalitica. Carl Gustav Jung , il saggio di Kusnacht, chiamò Ombra questo oscuro gemello, questa duplicazione dell’Io, che accompagna la nostra vita psichica quotidiana come un’ombra segue il corpo. Io l’ho chiamato Io antitetico – seguendo le indicazioni di William Butler Yeats, poeta, saggista e profetico veggente.
La mitologia e la religione si interrogano da sempre su quei misteri che la psiche soggettiva proietta sulla vita collettiva e sui misteri con cui la vita collettiva subordina a sé la psiche soggettiva. Forse, nella mitologia greca, il Minotauro non è altro che l’Io antitetico di Teseo: la forma mostruosa in cui può condensarsi un sogno di disumana potenza. Minosse, il re di Creta rifiuta di sacrificare al dio del mare il toro che gli è stato donato e il dio si vendica facendo innamorare di quel toro la regina. Da quelle nozze fra donna e bestia, in cui si fondono due trasgressioni – quella del re, che ha tradito il dio, e quella della regina, che ama un animale –, nasce Asterione, il Minotauro, il mostro divoratore di giovani ateniesi. Teseo, sicuro della sua missione, s’incarica di ucciderlo. Arianna – figlia di Minosse e della regina, quindi sorella di Asterione per parte di madre – s’innamora di lui e lo aiuta a uccidere il mostruoso fratello.
Forse Arianna è l’oggetto antitetico di Teseo, un amore che mentre gli offre il destro per sottrarre Atene al caos della schiavitù, tenta di sottrarre lui al suo destino di regnante. Teseo, che è costretto a ingannarla, è il soggetto primario della Legge di individuazione.
Tutto questo ho cercato di trasmettere nelle poesie che qui seguono, nelle quali ho miscelato eventi di vita personale e riflessioni di natura psicologica e simbolica.
I
Il tenebroso enigma
che il labirinto cela
nella sua pietrosa tessitura,
l’oscura belva il cui volto
è nulla oppure è il Caos
in cui s’insinua
il mare Oceano
e l’infinito Cielo,
in cui s’infrangono le strida
abbacinate degli stormi,
che giungon d’ogni dove,
è l’ombra in cui procedo,
appena illuminata
dai miei stessi passi
e dai tuoi più lenti
che seguono i miei
mentre mi porgi l’azzurro filo:
il ricordo tenace della vita
che mette al cuore una catena.
La storia si ripete ancora
in pochi simboli essenziali.
E il labirinto gira, ruota,
vortica sotto le stelle…
Siamo io e Lui soltanto,
nello specchio della mente,
mentre Tu mi chiedi in pena
un segno che ti risponda.
Forse, Signora
che sorvegli i miei passi
ansiosa del mio destino,
forse quel volto che a tratti
traspare nel buio più fitto,
quel mostro di cui sento
le lacrime tergermi il viso,
di cui sento il respiro
rombare nel mio stesso petto,
quell’anima informe e confusa
sono soltanto io.
Io sono quel tenebroso
abisso di silenzio
che attraversa la notte più buia,
io sono questa pausa sospesa
nel più profondo nulla,
questo cuore che si contrae
trafitto dall’eternità. Son io
– e nessun altro – quest’attesa
frenetica e insonne
che mi raggiunga
il voluttuoso oblio.
II
Poi, quando il gelido ferro
che serravo nella mano insanguinata
trapassò di colpo il turgido costato
per porre fine al gemito bestiale,
al tragico connubio
fra il bene e il male,
la morte mi ghermì
come un nero lampo.
Ma, nel sereno orrore
di non aver più scampo,
di morire confuso al mio Nemico,
una luce chiara discese
su di noi e ci divise.
L’Estraneo mi fissò in volto
e col mio stesso volto
addolorato e stanco
mi diede uno sguardo di commiato.
Si dissolsero allora
le alte ed intricate mura.
Cadde il velo d’illusione.
Oltre la reggia
il fulgido mare spalancò
le sue azzurre braccia.
Vidi la spiaggia illimitata
che preannunciava
mille approdi.
Vidi, Signora,
l’amore che ci univa.
Era una ferita antica,
era il tenace filo che mi desti
per non perdermi nel labirinto –
era la lama che mi donasti
per immergermi nella feccia.
III
Fui fermo nel tuffo
che anticipa il precipizio,
la cuspide delle mani volta
in alto in direzione del cielo.
Il volo trattenuto nell’Eternità.
Così dovette stare il tuffatore
greco della tomba
che non vedemmo mai
un attimo prima della caduta
obliqua nel Lete
immortalata nel fragile
affresco. Poi fu il Nulla.
Lo strappo, l’interruzione.
Eppure, come da un sonno
profondo privo d’immagini
o sogni, risalii dalle acque
mute del torbido fiume
con agili bracciate,
col piglio del nuotatore
conscio del suo sapere.
L’abbrivio fu il richiamo
della tua voce, il vellutato
tocco della tua mano.
E allo scoccar del sesto
giorno, fui di nuovo vivo.
IV
Devo lasciarti, Signora. Ora
devo andare. M’hai accolto
nel tuo chiaro pensiero
per il tempo del mio sperdimento.
Hai posto un limite al mio vagare.
M’hai curato – ché nel nero vortice
della pupilla s’attorceva ancora
il groviglio dei corpi, il volto
dell’umano mostro
stravolto dalla sfida. E m’hai dato
ristoro, quando coperto di sangue
e terra udivo come in un delirio
l’alte grida degli uccelli planare
sul disfatto cadavere.
M’hai seguita come un cane
sul veliero dal rostro acuto
che, come la lama il sangue,
fendeva la schiuma del mare.
L’isola fu dolce come una casa.
Come il tuo corpo carico di frutti.
Ma devo abbandonarti, Signora.
Devo andare. Di notte solcherò
le onde, i flutti che mi separano
dal luogo astratto del divino,
dell’Oltreumano che si nasconde.
Per abbracciarlo. Come un destino.
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